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Le relazioni gay e l'omosessualità in psicoterapia
Di relazioni gay continua a parlarsene come di relazioni deviate, così
come continua a parlare dell'omosessualità come di una malattia. E' di
questi giorni la dichiarazione di un ministro turco sul fatto che
l'omosessualità vada curata, e che occorra continuare a proibire le
relazioni gay e a ostacolare i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Al di là del diritto
delle coppie gay di potersi sposare o meno, la questione a monte sembra
essere quella di credere che l'omosessualità necessiti di una cura. Ma è
davvero così? Lo scopriamo in questo articolo firmato dal dottor Renzo
Zambello, psicoterapeuta e psicoanalista.
Sappiamo tutti che dal 1973
l’omosessualità non è più annoverata tra le parafilie o meglio deviazioni
sessuali. Per la verità bisognerà aspettare gli anni ’90 perché l’OMS decidesse di togliere definitivamente l’omosessualità dalle malattie mentali.
Dal 1973, per oltre 20 anni, psichiatri, psicoterapeuti, organizzazioni
religiose, morali e politiche hanno
fatto di tutto nel tentativo di bloccare l’eliminazione dell’omosessualità dal
DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) poi, finalmente,
nel 1993 questo comportamento sessuale scompare dagli elenchi dei disturbi psichici.
Ma, ancora nel 2004, Lingiardi e
Capozzi, pubblicavano su Psicoterapia e
Scienze Umane una ricerca sul comportamento degli psicoanalisti
italiani rispetto all’omosessualità. Il lavoro era il frutto di circa 600
questionari inviati ad altrettanti
psicoanalisti delle più importanti Associazioni Psicoanalitiche italiane. Il risultato
ha messo in risalto una forte differenza tra gli analisti sulle relazioni gay. Le differenze
in tema di omosessualità sembrano legate
alla formazione teorica professionale, medici o non medici, alla Società di
appartenenza e all’età. I giovani
sembrano più “possibilisti” degli
anziani.
Si capisce comunque che non è così vero che l’omosessualità sia scomparsa
dal mondo del patologico. D’altra parte se guardiamo nel
sociale non possiamo dimenticarci che solo l’anno scorso una canzonetta al
festival di San Remo dedicata a questo tema ha spaccato in due la
società: chi voleva curare l’omosessualità e chi no. Né possiamo dimenticare
che esistono organizzazioni psicologiche
che offrono strutture e protocolli
terapeutici contro le relazioni gay al fine di riportare ad un
comportamento etero gli omosessuali: la cosiddetta terapia riparativa. Infine, c’è
la Chiesa Cattolica che considera
il comportamento omosessuale e le relazioni gay come gravi e meritevoli di condanna: un vero e
proprio peccato mortale.
In quasi tutti i paesi
dell’Europa sono state riconosciute
legalmente le coppie gay, in alcuni anche i matrimoni, in Italia no. Nel mondo ci sono ancora
Nazioni dove l’omosessualità è considerata un reato punibile con la morte.
Da noi, fortunatamente la pena di
morte non c’è più e quindi anche gli omosessuali che vivono nel nostro paese non corrono tale
pericolo, ma in alcune realtà sociali le relazioni gay sono ancora rifiutate, gli omosessuali addirittura aggrediti e picchiati. Il sentimento omofobo è ancora socialmente molto forte e alcune volte è parte
strutturante degli ideali di alcuni
partiti o gruppi politici.
Di fronte a una realtà sociale del genere non ci meravigliano più di tanto i risultati della ricerca di
Lingiardi e Capozzi che, secondo me, pongono due importanti quesiti. Il primo: “Può la psicoterapia essere considerata una scienza capace di ricercare e curare indipendentemente
dagli influssi culturali, o rischia di
esserne non solo l’inevitabile frutto ma
anche la serva del sistema?”. Il secondo, di ordine clinico: “Come fa una
persona che soffre a scegliere?”.
So bene che non esiste una
scienza pura. Da tempo i ricercatori hanno rinunciato all’idea di una ricerca che
si estranei dal contesto sociale e politico, ma anzi, direi che fin
dalla fine del ‘700, come scrive
Marco Soresina in I medici tra
Stato e società, studi su professione medica e sanità pubblica nell'Italia
contemporanea, la comunità medica scientifica ha fatto un percorso tormentato, in cui variamente si
intrecciavano questioni scientifiche,
prese di posizioni politiche, disponibilità alla collaborazione con i poteri
pubblici, improvvisi e duraturi irrigidimenti corporativi. Ma è sempre stato forte da parte del potere
politico il riconosciment della competenza specifica dei tecnici della salute riconoscendo loro un innegabile merito e responsabilità nel
processo di generale miglioramento igienico-sanitario della nazione.
Già, ma
esiste nella classe politica di oggi il riconoscimento degli psicoterapeuti
come operatori capaci di fornire strumenti per un miglioramento della salute
psichica? E gli psicoterapeuti hanno una
consapevolezza del loro ruolo
sociale? Un dato: ad oggi non mi risulta
che le ASL, tranne due o tre casi, abbiano messo in concorso posti per il ruolo di Psicoterapeuta. In compenso in Italia ci sono più di 100 diversi tipi di Scuole di Psicoterapia e
alcune di queste hanno teorie e tecniche
fra loro antitetiche.
Mi
ricollego così al secondo quesito: che
fare, a chi rivolgersi?
Ricordo
un paziente che venne da me dopo undici anni di
analisi freudiana, fatta evidentemente
con “vecchio” analista, il quale
dopo undici anni di analisi viveva
ancora in maniera ego-distonica la sua
realtà sessuale, e l’analista continuava
a ripetergli che il suo malessere era la prova-provata che lui non fosse omosessuale. Mi sono sempre chiesto chi sbagliasse, lo psicoterapeuta
che evidentemente diceva in buona fede quello
che credeva e sentiva o il paziente che ha continuato per ben undici anni a
chiedere qualcosa a qualcuno che non gliela poteva dare? Scriveva S. Ambrogio, “Non è così grave se non si trova ciò che cerchiamo. Grave sarebbe
cercarlo dove non può essere”. Evidentemente in quel rapporto, quel
paziente, non poteva trovare una risposta al suo problema.
Diciamo
per inciso, per rendere un po’ più chiaro il mio pensiero, che sono convinto che quel paziente abbia
comunque avuto un grande giovamento dal rapporto più che decennale intrattenuto
con quel terapeuta, in diversi altri settori della sua vita. Ne ho avuto prova seguendolo personalmente. Come sono certo che
nella sua esperienza professionale, quel
psicoterapeuta abbia aiutato centinaia di pazienti a crescere, a trovare, a trovarsi. Ma in questo caso specifico, le
cose non funzionavano, si erano “incistate”.
Che fare? E’ qui, dove si avverte tutta la debolezza sociale della categoria
degli psicoterapeuti. Se un medico
riceve una richiesta per una prestazione che non è nelle sue competenze o
sensibilità, dice chiaramente al paziente: senta questo non è una cosa per me, si
rivolga al collega Tizio o Caio. Così pure, se un paziente non si sente
rassicurato dalla visita di un medico, chiede un consulto ad un altro, etc. Ciò non avviene nel campo
psicoterapeutico. Lo psicoterapeuta, socialmente misconosciuto, vive da solo la
sua professione, al massimo all’interno della stessa Società o gruppo di
colleghi, isolato, pericolosamente solo all’interno di una bolla dove può sentirsi onnipotente.
D’altra
parte, la politica in questo ha una
grande responsabilità, perché non
riconoscendo la psicoterapia, non controlla e non sensibilizza e, il paziente non
conoscendo non è libero e capace
di scegliere.
E’ in
questo ambito di sensibilizzazione sullo strumento psicoterapia, nello
specifico quella dinamica, che da tempo si è concentrato il mio impegno
sociale. Cerco, in quanto posso, utilizzando gli strumenti mediatici che ho a
disposizione di informare di cos’è la psicoterapia, quali psicoterapie ci sono e come funzionano.
L’esistenza
dell’omosessualità ha avuto fin
dall’inizio due campi di ricerca: quella
genetica e quella psicologica. Quest’ultima ha fornito diverse interpretazioni di cui la
prima è sicuramente da riconoscere a S. Freud. Egli parte
dalla premessa che “un certo grado di ermafroditismo è proprio della
normalità; (come nella realtà biologica)"
ma rifiuta di trasferire questa concezione biologica al piano psicologico
e definisce l’omosessualità come una
inversione psichica della libido. Egli ritiene che l’omosessuale non scappi dalle donne, delle quali anzi si
circonda, ma dal contatto con la zona genitale femminile.
Ciò è
il risultato, dice Freud, di un complesso edipico vissuto nell’età
adolescenziale on fantasie angosciose
di castrazione. La ricerca di un uomo rappresenta quindi la difesa dalle fantasie di perdita del proprio pene. Alla base di queste
fantasie, dice Freud, c’è per l’adolescente l’assenza del padre che rimane totalmente in balia dell’influsso femminile. Per quanto
riguarda l’omosessualità femminile, Freud pensa che vi si giunga o tramite identificazione col padre nel
tentativo di superare la frustrazione edipica o attraverso una regressione alla
fase primaria, al primo rapporto madre-figlia che nella fantasia diventa un
rapporto omosessuale. E’ chiaro che da un punto di vista clinico, nel caso di
un disagio, i due quadri sono nettamente diversi, il secondo è molto più
“grave” del primo.
Anche la
M. Klein aveva teorizzato sulla genesi
psicologica dell’omosessualità e delle relazioni gay. La considerava
come il risultato di un precoce abbandono del seno materno, perché
avvertito come una “cattiva-madre” con
un conseguente bisogno di introiezione del “pene-paterno” che diventa
sostitutivo e compensatorio di una “madre distrutta”.
Groddeck invece, nel Libro dell’Es, scriveva nel 1923 :”L’essere umano ama in primo
luogo se stesso, si ama tutte le varietà della passione; la sua natura lo
spinge a procurarsi ogni immaginabile forma di godimento, e quindi, poiché egli
stesso è maschio o femmina, è a priori soggetto alla passione per le persone
del suo stesso sesso….Dunque non ha senso chiedersi se l’omosessualità
costituisca un’inclinazione abnorme, una perversione….. (anzi) bisogna
chiedersi come nonostante la sua predisposizione omosessuale, l’essere umano
sia anche in grado di provare attrazione per il sesso opposto”.
Alcune
teorie psicoanalitiche contemporanee spostate più su un indirizzo relazionale
(Bion, Winnicott) hanno sottratto la
sessualità alla sola forza istintuale libidica di stampo freudiano e l’hanno
vista in termini più evolutivi. Kohut,
(1979) ad esempio, critico rispetto alla tesi freudiana, pone l’omosessualità
in una posizione intermedia tra l’amore narcisistico e quello oggettuale.
Come si
vede c’è un po’ di tutto e chiaramente
tutto è possibile trovare nel campo della psicoterapia. Personalmente faccio mia la considerazione di Meltzer,
(1966) già allievo della Klein, che
considerava “tossicomanico” un godere
della propria sessualità (sia omo che etero) in una modalità di dipendenza.
Questa, la dipendenza, è un segno di perversione. Una sessualità vissuta come una “droga” non aiuta a crescere, ma anzi
sprofonda il soggetto, ripeto, indipendentemente che sia omo o etero, nella
schiavitù.
Allora
diventa più chiaro qual è il compito dello psicoterapeuta: aiutare il paziente
a liberarsi dalle proprie schiavitù
rendendolo capace di seguire la propria strada,
alla ricerca dell’ individuazione, rimanendo
, come diceva Bion, di fronte al paziente, con un comportamento “senza memoria e senza desiderio”, aggiungerei
“senza pre-concetti”.
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